GUADO

GUADO di Paola Pozzolo, Venezia, 2025, Mazzanti Libri.

ALLA FINE
Era la fine di settembre, il sole si stemperava negli ultimi ba-
gliori dell’estate, lentamente calava dietro le colline che dise-
gnavano l’orizzonte, fissandone i confini.
La sua abitazione, dove vide la luce intorno all’anno del Si-
gnore 1412, si stagliava contro il cielo azzurro cupo, bianca, con
un ampio portale, grandi finestre e architravi. Si imponeva nel
cuore del borgo natio, un’abitazione degna di un ricco mercante
quale era diventato suo padre, non troppo distante dalla chiesa
più importante della città.
Aveva sempre vissuto qui, e qui tornava sempre dopo ogni
suo peregrinare tra le corti italiane, dove veniva chiamato per la
sua perizia di artista, ricercato e ammirato.
Era qui, in questo borgo raccolto, che desiderava concludere
i suoi anni.
Un borgo cinto da mura che rammentavano uno sperone,
mentre intorno si estendeva la Valtiberina, un paesaggio fatto
di lente ondulazioni digradanti in tutte le tonalità del verde che
lentamente scemava nei colori caldi dell’autunno.
La vallata dove si estendeva era simile a un anfiteatro, intorno
terreni ubertosi. Un paese in zona strategica, punto d’incontro
di differenti vie che si diramavano verso le più grandi città, Flo-
rentia, Roma, Venezia. Qui si vendeva in particolare guado e si
importavano tessuti, grezzi e finiti, zucchero e soprattutto sale.
Paesaggi, colori e luci che avevano attraversato la sua anima
e il suo sguardo, mentre la sua mente correva rapida alle solu-
zioni di problemi matematici, facendogli intuire il segreto dello
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spazio e della luce, segreto che aveva reso intellegibile con la
forza espressiva della pittura.
Porgeva il viso ai raggi del sole morente, gli occhi chiusi, per-
cepiva il calore sulla pelle, volgeva il capo ora in una direzione
ora nell’altra, aspirava gli odori della vita quotidiana. Sentore di
brace, cibi arrosto, verdure accomodate, mentre il vento leggero
gli portava i profumi dei campi e dell’umido dei folti boschi.
Prestava attenzione ai rumori, udiva voci di donne, grida di
bambini, il passaggio di un carro e più lontano, l’attività di un
fabbro, il suono di un telaio. La memoria tornava al periodo fio-
rentino, quando la mattina il carro del fattore, trainato da un asi-
nello, attraversava le vie cittadine, segnalando la presenza con
una campanella dal suono argentino. Era colmo di formaggi,
quaglio, ricotta e latte appena munto, lui aspettava il passaggio
sotto casa per scendere a comprare una brocca di latte per la
colazione, ne percepiva ancora il sapore dolce e spesso.
Sorrise mestamente tra sé e sospirò, la vista lo aveva abban-
donato, a poco a poco tutto si era fatto più sfocato, gli era venuta
a mancare la percezione dei particolari, anche i colori non erano
più brillanti ma parevano diluiti nell’acqua, fino a quando il
buio lo aveva ghermito, rendendo monocrome e infinitamente
lunghe le sue giornate.
Viveva di ricordi ormai, con le mani misurava forme e volumi
ma il colore, la luce e la profondità dello spazio gli erano preclusi.
Trascorreva le sue giornate accompagnato in giro per Borgo
da un ragazzino, Marco di Longaro. Questi, oltre a essere il suo
appoggio, leggeva per lui e scriveva ciò che Piero gli dettava.
Sembrava uno scherzo del destino. In cosa aveva peccato?
Presunzione? Superbia? Scarso amore fraterno e filiale? Non
avrebbe saputo dirlo. L’unica certezza che possedeva era che
ora poteva vedere solo con gli occhi della mente, attingendo alla
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moltitudine dei suoi ricordi, che riempivano le lunghe giornate
della sua lunga vita.
Vedeva con l’udito, con l’olfatto, con il gusto e il tatto ma in
realtà si trattava solo dei ricordi di ciò che aveva veduto, dell’e-
sperienza passata.
Temeva a volte di apparire come un vecchio lamentoso
perso nel suo passato ma quanto gli mancava poter usare righe,
squadre e matite, inspirare l’odore della carta, osservarne il
colore, la filigrana, oltre che percepirne la consistenza, come era
solito fare quando si accingeva ai disegni preparatori. Muoveva
lentamente le dita, come a sfiorare un ruvido foglio.
In casa occupava le sue giornate insegnando. Il suo studio
era diventato un luogo di apprendimento, un’alternativa alle
scuole di grammatica e retorica del Borgo.
In quella stanza alcuni giovani suoi concittadini si ritro-
vavano a studiare matematica e geometria.
Su un foglio bianco appoggiato a un alto cavalletto, il giovane
Marco riportava quanto Piero gli dettava e disegnava figure ge-
ometriche copiando dal trattato dell’artista.
Dal canto suo Piero riproduceva nell’aria con la punta delle
dita, immaginarie fughe prospettiche.
Quando il maestro spiegava, nella stanza regnava un ri-
spettoso e affascinato silenzio che si frantumava non appena
Piero taceva. Le domande si accalcavano l’una sull’altra, le voci
concitate, di un tono troppo alto, ferivano l’udito, divenuto par-
ticolarmente sensibile, del pittore. Questi, infine, alzava la mano,
un gesto che non voleva essere imperioso ma deciso. Allora il si-
lenzio calava nuovamente nella stanza, dove il sole filtrava dalle
ampie finestre, nella luce bassa del pomeriggio, disegnando ara-
beschi tra le sedie, sfiorando porzioni di corpi, creando giochi di
luce, ombre e volumi tra le pieghe dei loro abiti.
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Aveva l’impressione di vederli, ma era solo la sua formi-
dabile memoria che gli consentiva, sapendo l’esatta posizione
delle persone sedute, di immaginare la materia colpita dalla
luce acquistare più o meno spessore, era quasi certo di osservare
le linee prospettiche che si diramavano dalle figure sedute sulle
rigide sedie di legno massiccio, appoggiate agli alti schienali,
nascondendo all’osservatore più attento il punto di fuga, là
dove tutte le linee finivano per convergere.
Quante volte aveva creato immaginarie scene come quelle,
con manichini in legno illuminati da candele, scrupolosamente
posizionati nei punti più diversi, riportandole poi sui grandi
cartoni di cui in età matura si era avvalso per le sue opere.
Quel tempo era trascorso ormai.
Oh, era durato per lunghi anni, non poteva certo lamentarsi,
aveva avuto una vita piena, aveva incontrato personaggi illustri,
studiato i più grandi artisti del suo tempo, alcuni lo avevano
onorato con la loro amicizia, come Alberti, Bessarione e lo stesso
duca Federico, ma quel tempo era caduto nell’oblio, le persone,
polvere e quello stesso oblio avrebbe fagocitato anche lui.
Gli capitava di pensare al “dopo” e nei suoi momenti più mesti,
quando il dolore al capo lo attanagliava impedendogli il riposo,
non riusciva a immaginarlo pieno di luci e canti, piuttosto come
un vortice buio e silenzioso nel quale precipitava per l’eternità.
Altre volte immaginava un nulla più sereno in cui vagare, incon-
trando le persone che avevano attraversato la sua vita o anche
solo sfiorata, come Cosimo de’ Medici o l’imperatore di Bisanzio.
A volte, solo nella sua stanza, seduto vicino al braciere che ri-
scaldava le sue membra intirizzite, porgeva il viso al benefico
calore e una lacrima, silenziosa, scendeva a rigare la guancia, fino
al labbro. La lambiva con la punta della lingua e la assaporava, sale
liquido che succhiava avidamente. Nessuno lo aveva mai veduto
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in quello stato di prostrazione, era ben attento a non farsi cogliere
in fallo, non desiderava la compassione e la pietà altrui.
In alcuni momenti si sentiva profondamente solo, nonostante
la numerosa famiglia che lo attorniava, ma che oramai non era
veramente sua, essendosi negato l’eternità attraverso un erede.
Si augurava che il distacco avvenisse rapidamente.
La sua passeggiata quotidiana era conclusa, lentamente si
accingeva verso l’abitazione, contava i passi che lo separavano
dall’ampio portale. Sulla soglia, Panta, la vedova di Marco, suo
fratello minore, lo attendeva.
Era lei che si prendeva cura della sua infermità e della sua
persona, mentre il fratello, oltre a avergli fatto da procuratore
nei tempi felici della sua professione, aveva curato, con An-
tonio, il loro altro fratello, gli affari di famiglia.
Il ragazzo si sciolse delicatamente dal maestro e lo consegnò
alle cure della cognata, la donna gli sfiorò il braccio, lui ne percepì
il discreto profumo di lavanda, la mano femminea si poggiò lieve,
pareva quasi che fosse lui a condurla e non il contrario.
Insieme, in silenzio, si avviarono verso le stanze del piano
superiore, dov’era il suo appartamento, con la grande stanza da
letto che egli stesso aveva affrescato.
La possente porta di quercia si chiuse silenziosamente alle loro
spalle, Piero avvertì un’improvvisa sensazione di freddo, l’idea,
malsana, che quella porta assomigliasse al coperchio di una bara.
No, non temeva la morte, aveva vissuto a lungo, altri che lo
avevano accompagnato nel suo cammino in questo mondo non
erano più e una nuova era si stava approssimando.
Aveva fatto il suo tempo, il suo solo rammarico, quando sa-
rebbe giunta l’ora, non poter guardare un’ultima volta i colori
della natura che lo circondava, la notte eterna, per Piero della
Francesca, era già sopraggiunta, vigliaccamente.
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BORGO
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«Piero, Piero, figliolo rispondi» la donna chiamava a gran
voce ma il ragazzino, pur udendola, non sembrava darsene per
inteso, lentamente si muoveva tra le piante di guado in fioritura,
nell’immenso campo del padre, ai margini del borgo.
Con le mani sfiorava le piccole corolle di colore giallo in-
tenso, che parevano riflettere la luce del sole, di quel mattino di
fine giugno.
Puntava lo sguardo verso l’orizzonte, misurando la pro-
fondità dello spazio. A cosa stava pensando, insensibile e im-
perturbabile agli accorati richiami materni?
Romana da Monterchi scuoteva il capo sconsolata, abbassò
lo sguardo ai suoi piedi e si chinò a sollevare da terra il piccolo
Marco. Piero, a cui era stata affidata la cura del fratellino, lo
aveva seduto al bordo del campo prima di addentrarvisi e lì lo
aveva trovato la madre, con le mani e il viso sporchi di terra,
perso nel gioco fanciullesco, ignaro di essere il motivo dell’ap-
prensione materna.
Come aveva potuto Piero lasciare il piccolo da solo, quando
aveva avuto l’incarico di controllarlo mentre lei era occupata
con le donne di casa e gli altri figli?
Sospirò, scuotendo nuovamente il capo, quel suo figlio mag-
giore aveva la mente che vagava chissà dove.
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Così diverso dai suoi coetanei, faticava a concentrarsi sulle
attività pratiche e risultava difficile avviarlo verso il commercio
di famiglia. Era pur vero che aveva solo 15 anni, forse pochi
per attendere appieno al mestiere paterno ma avrebbe dovuto
pur cominciare, prima o poi. D’altronde già andava a bottega
a apprendere a far di conto. Suo padre auspicava che presto si
sarebbe occupato della contabilità delle loro attività.
Un secondo sospiro sollevò il petto della donna, con il piccolo
Marco in braccio, sporco dalla testa ai piedi, si avviò verso l’abi-
tazione dei Franceschi, con il sole a picco sul capo, deplorando
la sua stessa mancanza di buon senso per essere uscita a capo
scoperto.
Avrebbe dovuto parlare con il marito, rifletté, raccontargli
quanto accaduto e insieme, perché si trattava anche di suo figlio,
avrebbero dovuto prendere una decisione circa il suo futuro.
Intanto, ignaro del tumulto indotto all’animo materno, Piero os-
servava la natura che lo circondava, i colori che la componevano.
Da che aveva memoria, era attratto dalle forme e dai colori
più che dalla grammatica e dalla retorica, dai numeri più che
dai versi dei poeti più in voga, aveva amato la scuola pubblica
che aveva frequentato, aveva sì studiato coscienziosamente
grammatica e retorica, perché in verità lì altro non si studiava,
ma erano la matematica e la geometria apprese presso amici
commercianti del padre ad ammaliarlo.
Timido, quasi ombroso, timoroso di dover spiegare al padre
come non avesse ingegno per il commercio del guado, oltre che
per le altre attività di famiglia.
E pure il guado lo attirava, ma solo perché da quella pianta
si ricavava la tinta blu, che serviva per tingere i panni, certo, ma
anche per dipingere, utilizzandolo al posto del più costoso blu
lapislazzuli per i manti delle madonne e il cielo. Per lui il blu era
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un colore che lo richiamava verso l’infinito, risvegliando una
sete di purezza, un senso del soprannaturale.
Avrebbe voluto dipingere, perché era questo il suo desiderio.
Desiderava che le sue opere potessero essere acquistate anche
da chi non disponeva di patrimoni cospicui, perché non sarebbero
state irraggiungibili e anche un artigiano arricchito o un borghese
non eccessivamente ricco, avrebbero potuto esporre opere di
pregio, perché lui di questo era sicuro, le sue non sarebbero state
pitture di cattivo gusto.
L’animo del mercante era comunque delineato in lui, nono-
stante forse non se ne rendesse conto.
Sognava Piero, il Borgo, seppur dinamico e vitale, benché lo
avesse certamente stimolato, non poteva essere il punto di arrivo
di tutta la sua vita, c’era un mondo da esplorare, oltre le colline e i
versanti appenninici.
Le mura intorno a Borgo, quella stessa cinta, così vicina alla
sua casa, improvvisamente apparve soffocante, eppure lui aveva
sempre amato la sua terra, amava la sua grande e affollata casa,
nonostante l’odore pungente di guado che aleggiava sottile, prove-
niente dai grandi magazzini dalle volte a botte, vicini all’abitazione,
in quei locali all’angolo, di Via delle Giunte e Via Borgonuovo.
La tinta ricavata dal guado lo affascinava, così come lo affasci-
navano i colori e i toni che la luce sapeva sprigionare su di essi.
Amava dipingere con tutto se stesso, si dedicava a realizzare sten-
dardi e ceri con eguale entusiasmo, soffermandosi su temi religiosi
e laici in egual misura.
Sembrava maggiore dei suoi 15 anni, forse per via dell’espres-
sione risoluta e pensierosa. I suoi lineamenti apparivano quelli di
un uomo fatto, con il naso dritto, la bocca carnosa e ben disegnata,
i contorni scabri. Una ruga d’espressione tra le folte sopracciglia,
sottolineava uno sguardo già intenso, di un caldo color nocciola.
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Era alto Piero, ma in fondo era poco più di un bambino e temeva
il giudizio paterno ma sapeva anche come fosse la madre ad avere
l’ultima parola nelle decisioni che riguardavano la loro famiglia e
facilmente avrebbe potuto riuscire nel suo intento se lei lo avesse
appoggiato.
Improvvisamente si ricordò del fratellino che aveva abban-
donato sul ciglio del campo, per rincorrere i suoi pensieri. Tornò
velocemente sui suoi passi, Marco però non era più lì. Il panico lo
colse, dove poteva essere andato da solo?
Se gli fosse capitato qualcosa per la sua irresponsabilità non
avrebbe mai potuto perdonarselo, lui era il primogenito e nono-
stante a volte trovasse seccante dover fare da balia a qualcuno dei
suoi fratelli minori, era molto affezionato a tutti loro.
Correva, correva più veloce che poteva, le sue lunghe gambe
compievano lunghe falcate, incurante di schiacciare quei fiori
che fino a poco prima aveva delicatamente accarezzato, per rag-
giungere l’abitazione di famiglia e infine si arrestò davanti al
grande portone di quercia, ansando, senza fiato.
Picchiò con forza con i pugni sulle formelle, fino a quando il
battente si aprì e sulla soglia apparve Benedetto de’ Franceschi,
suo padre.
«Entra Piero», il tono era gelido, basso, quasi un sibilo pronun-
ciato a denti stretti, Piero abbassò il capo, si strinse nelle spalle, l’e-
spressione contrita e preoccupata per quello che stava per accadergli
ma non più disperato. L’atteggiamento paterno gli aveva confermato
che fortunatamente a suo fratello non era accaduto nulla di grave.
Il peso che gli opprimeva il petto fino a pochi attimi prima parve
dissolversi, con un profondo respiro, mentre il padre si faceva da
parte, entrò in casa, sentì la porta chiudersi, chiuse gli occhi per un
breve attimo poi seguì l’uomo verso le stanze al piano superiore,
dove, ne era consapevole, lo attendeva la sfuriata paterna.
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Seguì il padre all’interno della grande casa, passo dopo
passo, sulle orme dell’uomo, giunsero nello studio paterno,
questa volta non aveva contato gli scalini, misurato lo spazio
lungo le assi del pavimento di legno scuro, era talmente teso
da non percepire il famigliare scricchiolio delle tavole, né il
profumo di cera d’api che aleggiava su mobili e stipiti.
Si arrestarono davanti alla massiccia porta, Benedetto si
voltò, lo osservò, lo sguardo cupo, le labbra serrate, la mascella
contratta di chi stava trattenendo la propria istintiva reazione,
poi, con un cenno del capo, lo invitò a entrare, mentre spa-
lancava il pesante battente.
A Piero batteva forte il cuore in petto, per consuetudine nello
studio si entrava solo per qualche reprimenda. A lui non era
capitato spesso ma aveva vivido il ricordo di quelle poche volte,
soprattutto delle punizioni.
Benedetto era un uomo giusto e non violento, questo Piero lo
aveva sempre apprezzato, era un ragazzo sensibile e non sop-
portava la brutalità ma le punizioni che suo padre sapeva in-
fliggere lo toccavano in ogni sua più intima fibra, perché lo col-
pivano nelle attività che lui apprezzava di più e ora paventava
cosa avrebbe potuto escogitare.
Alzò lo sguardo e il cuore fece un balzo nel petto, nella
stanza, dritta in piedi a fianco della scrivania, sua madre.
Romana avrebbe voluto mantenere uno sguardo severo ma
appena vide Piero, un lieve sorriso le si disegnò sulle labbra.
Piero la osservava e come sempre non si capacitava di come il
volto materno si trasfigurasse ogni qualvolta sorrideva.
Fece scorrere lo sguardo sui suoi lineamenti lievi e signorili,
sulla figura snella, nonostante le diverse gravidanze.
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Mentre il padre si portava verso la sedia con braccioli che era
posta dietro la scrivania, Piero si guardava intorno. La stanza era
molto semplice, quasi monacale, rispecchiava i gusti paterni, era
proprio il rigore a conferirle eleganza, con i muri bianchi e ruvidi
di calce. Quattro porta torce in ferro brunito, rispettivamente ai
quattro angoli della stanza e alcune mensole anch’esse angolari,
con dei busti marmorei, completavano la movimentazione delle
pareti, una spessa tenda, similmente quasi un arazzo dai vividi
toni, copriva l’ampia finestra, conferendo un tocco di colore alla
stanza, altrimenti quasi monocromatica. Alla base della finestra
una cassapanca intagliata, in mezzo alla stanza, di traverso ri-
spetto alla porta d’accesso, la scrivania, che riprendeva le me-
desime decorazioni della cassapanca, infine su un lato, una li-
breria lineare, altrettanto semplice rispetto agli altri arredi.
Alzò lo sguardo al soffitto dove correvano lunghe e spesse
travi in legno tinte di nero.
Era attratto da quella stanza, se ne avesse avuto l’opportunità
ne avrebbe fatto il suo, di studio. Certo, avrebbe apportato
qualche modifica, come ad esempio liberare la finestra dalla
spessa tenda per consentire alla luce di penetrarvi. Riusciva
a immaginare il cono di luce bianca, ove si potevano scorgere
le minuscole particelle di pulviscolo colorato che sembravano
danzare nell’aria.
«Ebbene, vuoi spiegare a me e a tua madre il motivo del tuo com-
portamento?», la voce paterna lo riportò bruscamente alla realtà.
«Ero sul ciglio del campo e osservavo l’orizzonte, quando
mi sono reso conto che alla mia vista le file di piante in fiore
sembravano congiungersi in lontananza, creando un’unica
macchia compatta. D’impulso sono entrato nel campo e ho co-
minciato a avanzare, ma le fila di piante non si congiungevano,
continuavano a correre parallele» cercò di spiegare Piero.
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«E questo cosa sta a significare?»
«Non lo so ancora, ma è un fenomeno che mi interessa.
Oggi, guardando tutto ciò che mi circondava, ho compreso
come anche la natura sia riconducibile a forme geometriche, io
credo sia la dimostrazione della grandezza di Dio. Certo, si può
pensare anche al processo contrario, ossia partire da una forma
geometrica, frutto del pensiero dell’uomo, per raggiungere la
forma naturale o qualcosa di bello da vedere o di utile da ado-
perare. I numeri, padre, rappresentano in termini astratti la bel-
lezza del creato e il colore viene loro in aiuto per completare
l’opera»
Benedetto ascoltava perplesso quel suo figliolo, che a 15 anni
andava cianciando dell’opera divina. Perché non era simile ai
suoi coetanei, che si dedicavano al gioco e miravano a espe-
rienze per nulla spirituali? Guardò la moglie, non poté fare a
meno di osservarne il sorriso compiaciuto, lei gli aveva chiesto
di non essere eccessivamente severo con Piero, era certa che
avesse aveva avuto un valido motivo per comportarsi in tal ma-
niera.
«Dalle tue parole devo dedurre che ti piace la matematica
più della retorica e del diritto, non ci sarebbe nulla di male, anzi
potrebbe tornare utile per la nostra attività»
«Marito, non avete udito cosa ha appena finito di dire nostro
figlio? I numeri rappresentano il lato concettuale del bello e il
colore completa l’opera. Piero non ha alcun interesse a com-
merciare in guado, né a lavorare cuoi e pellami, vero figliolo?»
intervenne Romana, lanciando uno sguardo di comprensione
verso il ragazzo.
«È così madre», Piero era un ragazzo sveglio e colse la palla
al balzo, una simile opportunità avrebbe potuto non capitargli
nuovamente. Forte dell’appoggio materno, si rivolse al padre,
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«io non voglio seguire le vostre orme, desidero dedicarmi alla
pittura», scandì, senza abbassare lo sguardo.
Benedetto non riusciva a trovare argomenti validi per con-
trobattere, fissò con insistenza il figlio, che reggeva orgogliosa-
mente lo sguardo, sembrava fosse in atto una lotta silenziosa
tra i due, si volse verso la moglie ma anche lei non sfuggiva
agli occhi del marito, alla fine sospirò, due contro uno, poteva
ritenersi sconfitto con onore.
«Così sia, approfondirai gli studi che più ti si addicono, se
questa è la tua volontà, io cercherò un valido pittore che ti possa
introdurre a questa professione, perché di tale si tratterà, di
quello dovrai vivere, lo sai vero? Per ora non andrai a bottega
a Florentia, sei ancora troppo giovane per vivere solo in una
città pericolosa come quella, ne riparleremo più avanti. Inoltre,
poiché saranno i tuoi fratelli Marco e Antonio che al momento
giusto mi subentreranno, sarà a loro che dovrai rispetto, anche
se sei tu il maggiore, poiché per tua scelta hai rinunciato al tuo
ruolo, sono stato chiaro?»
Piero si limitò a un cenno di assenso con il capo.
«Sei comunque stato imprudente e meriti ugualmente una
punizione, a partire da ora e sino ai vespri di domani, non
dovrai muoverti dalla tua stanza, pranzerai e cenerai solo con
latte e pane e leggerai questo. Domani sera dovrai farne un ri-
assunto e spiegarmi cosa ti ha colpito e cosa ti è rimasto della
lettura fatta» e porse al figlio una pergamena.
Piero, incuriosito, la srotolò, lesse le prime righe e un’espres-
sione costernata gli si dipinse sul viso. Se voleva punirlo, i salmi
scritti da Petrarca, erano la scelta giusta.
«Ora puoi ritirarti nella tua stanza», un ultimo cenno del
capo e il ragazzo voltò le spalle ai suoi genitori e si allontanò
dallo studio.
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Rimasti soli, marito e moglie si osservarono a lungo, fu Be-
nedetto a rompere il silenzio, «lo sapevate vero?» la voce greve,
non sapeva darsi pace che il suo primogenito non volesse seguire
la vocazione di famiglia ma tracciare una strada tutta sua.
«Betto, marito mio, che madre sarei se non riuscissi a cogliere
i pensieri e i sentimenti di mio figlio? L’ho tenuto in grembo, non
vi è nulla di lui che mi sfugga. Ad ogni modo se non foste stato
così preso dalla vostra attività ve ne sareste accorto anche voi»
«È un rimprovero il vostro? È il mio lavoro che ci consente una
vita agiata, d’altronde, pensavo che presto mi avrebbe affiancato,
sarebbe stata l’occasione per imparare a conoscerlo meglio»
«Piero inizierà il suo apprendistato qui a casa, se vorrete,
avrete modo di passare del tempo con lui ugualmente e di se-
guirlo nei suoi progressi», la mano di Romana gli strinse forte la
spalla.
«D’altronde, meglio saperlo contento della strada intrapresa
piuttosto che farne un pessimo commerciante», ammise sospi-
rando ma non troppo convinto.
La donna sorrise, «ora si che vi riconosco, il vostro buon senso
ha preso il sopravvento sull’iniziale delusione. Bene, è tempo di
andare a tavola, siamo soli oggi, Piero è in punizione, gli altri
nostri figli ancora non siedono a tavola con noi. Gustiamoci
questo momento di perfetta solitudine voi e io»
Benedetto sorrise guardandola, erano sposati da oltre 15 anni
e per lui la moglie era bella come il giorno del loro matrimonio e
l’ammirava oggi come allora, forse di più, per la sua intelligenza
e buonsenso.
Betto era di origini modeste, proveniva da una famiglia
di conciatori, il suo scopo nella vita era stato quello di ele-
varsi socialmente, per sé ma anche e soprattutto per la sua
famiglia.
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Era amareggiato, aveva lavorato molto per raggiungere
una tranquillità economica e sociale importanti. Suo nonno e
così suo padre e pure lui, erano artigiani che lavoravano cuoi e
pellami. Appartenevano alla corporazione dei calzolai, corpo-
razione che godeva di scarsa stima, socialmente.
Ricordava ancora i primi anni di duro lavoro, sentiva ancora
l’odore acre e pungente dell’urina usata nella conciatura delle
pelli. Gli capitava di svegliarsi nel pieno della notte con quel
sentore che gli serrava la gola e faceva lacrimare gli occhi. Era il
suo incubo ricorrente, perdere ciò che era riuscito a conquistare,
dover ricominciare da capo.
Era stato fortunato, aveva ereditato da un cugino una
bottega ben avviata per la vendita di cuoi e pellami, aveva
rischiato iniziando anche a commerciare in stoffe e poi era ar-
rivato anche il guado, la riscossione delle imposte per conto
del Comune e la compravendita di sale. Insisteva perché i figli
si occupassero di attività più prestigiose. Piero era il primo-
genito, seguivano poi Francesco, Marco, Antonio e tre figlie
femmine, Vera, Angelica e Antonia.
Per tutti auspicava buone sistemazioni, ché anche quello era
un modo per portare la famiglia a un livello superiore. Piero per
primo, scompaginava i suoi piani e le sue aspettative.
Piero era cresciuto in quell’ambiente e, attento osservatore,
aveva posato lo sguardo sui ricchi tessuti che il padre vendeva,
ne aveva tastato la morbidezza e la consistenza, studiato il
modo in cui i tessuti ricadevano e formavano le pieghe, sapeva
che per un pittore, l’attenzione ai particolari era fondamentale.
Betto aveva notato questa curiosità del figlio, scambiandola
quale interesse per il loro commercio, ora comprendeva come
invece l’occhio del figlio andasse oltre la mera materialità, pro-
iettato verso la forma.
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Sospirò, non era uomo da imporsi con la forza e voleva che i
figli fossero soddisfatti della loro vita, se Piero voleva dipingere,
ebbene che lo facesse, ma il rancore in cuor suo persisteva.
Solo, nel suo studio, sedeva alla scrivania sommersa da fogli
di carta e di pergamena, i gomiti appoggiati sul piano dello
scrittoio, le mani davanti al viso con i polpastrelli che si sfio-
ravano ritmicamente e nervosamente, lo sguardo perso in un
punto lontano, forse oltre le spesse mura di casa, masticava
amaro per la scelta del suo primogenito.